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Ai medici di famiglia non piace il decreto Balduzzi

Da un primo sondaggio effettuato dal Sole-24 Ore, i medici di famiglia bocciano la riforma delle cure primarie del cosiddetto decreto Balduzzi. L’85% dei medici di famiglia non ritiene “realistico e fattibile” l’obiettivo di garantire l’assistenza sul territorio h24, e il 79% è convinto che il territorio non possa compensare gli ulteriori tagli ai posti letto previsti dalla spending review. La maggioranza resta fredda all’idea di aggregazioni monoprofessionali e non apprezza l’introduzione della figura del referente-coordinatore, anche se circa il 50% riconosce che le forme organizzative multiprofessionali sono utili per integrare le diverse professionalità della Sanità territoriale. Viene approvato, invece, il potenziamento dell’assistenza di base con aumento di infermieri e collaboratori di studio, l’ingresso negli ambulatori della diagnostica di base e un cambiamento del sistema di formazione. Intanto l’esodo biblico verso i Pronto Soccorsi, i tentativi di aggirare le chilometriche liste d’attesa, l’insoddisfazione generale dei pazienti e degli operatori cresce a velocità superiore alla crescita del deficit.

Spending Review: incerti i tagli agli sprechi, batosta sicura

Questo il titolo dell’articolo de il Fatto pubblicato lo scorso 31 luglio e che prosegue: Alla fine del lavoro in Senato le mazzate ci sono tutte, la spending review un pò meno. Le cifre generali del provvedimento, infatti, sono rimaste intatte (“i saldi sono stati interamente preservati”, nel linguaggio del governo): restano 26 miliardi di tagli nel triennio 2012-2014 e quasi altrettanti di spese o per coprire il mancato aumento dell’Iva fino a giugno prossimo, l’effetto positivo sul fabbisogno netto a regime ammonta a soli 27 milioni di euro. Insomma, i tagli, lineari, ai trasferimenti a Regioni, enti locali e comparto sanitario (oltre l’80 per cento del totale) restano al loro posto, così come la sforbiciata ai 24mila dipendenti statali a breve definiti esuberi, mentre invece buona parte del resto del provvedimento è stata riscritta dai senatori. Al governo va benissimo così, tanto è vero che il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo – uomo che pare non avere il dono della dissimulazione – ieri, comunicando all’aula di palazzo Madama tutta la soddisfazione dell’esecutivo, s’è lasciato scappare quello che quasi tutti sapevano già: “In cinque giorni siamo riusciti a fare – e questo forse rimarrà un pò nel Guinness dei primati qui al Senato – una sorta di miniFinanziaria con tempi che, secondo i Regolamenti parlamentari, negli anni passati erano molto più distesi”.
Allora è una nuova manovra, non la spending review? In serata Polillo tenterà di correggersi in modo un pò goffo: “Non dicevo Finanziaria nel senso della natura del provvedimento, ma delle procedure parlamentari”. Ci sta anche questo, d’altronde il dibattito è stato quel che è stato: Alessio Butti, per dire, ex An del PdL, ha definito il decreto “una supercazzola” (citazione da Amici Miei, fatta probabilmente pensando di essere all’opposizione), mentre il leghista Alessandro Vedani ha optato per il fantozziano “boiata pazzesca” (con la prima parola coperta da un autoprodotto “bip”). Entrambi, peraltro, ce l’avevano soprattutto col dimezzamento delle province, forse l’unico punto su cui il governo s’è davvero mostrato irremovibile. QUANTO AL RESTO – cioè alle cose che non riducono la spesa, ma la riqualificano – lavoro discutibile. Intanto il Senato ha pensato di distribuire 800 milioni una tantum ai comuni prelevandoli dai fondi per le cittadine virtuose e da quello per i rimborsi fiscali, provvedendo poi a pagare qualche sconto per i soliti noti con tasse e multe: da gennaio, ad esempio, le otto regioni in disavanzo sanitario (Piemonte, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) potranno aumentare l’Irpef dallo 0,5 all’1,1%. Pure le lobby del sottobosco parapolitico hanno avuto più di una soddisfazione: salva la Covip, che sorveglia i fondi pensione, cambia nome l’Isvap (con cui la prima doveva essere accorpata), restano tra noi pure il Comitato per le pari opportunità e il fondo per i comuni confinanti, slitta di qualche mese la chiusura di Arcus spa e della Fondazione Valore Italia (e in qualche mese di cose ne accadono…) e di due anni il taglio del 15 per cento degli affitti per gli uffici della Pubblica amministrazione. I colpi più duri, però, il governo li incassa da regioni ed enti locali: non sui tagli, per carità, quelli restano, ma sulle società controllate. Ora la vendita di quelle che lavorano solo “in house” non è più obbligatoria, come pure non lo è più l’accorpamento o la soppressione di enti e agenzie di proprietà di sindaci o governatori (i costi di gestione, però, dovranno diminuire del 20%). In cambio del mantenimento di questi
costi della cattiva politica, i senatori hanno pensato bene di coprirsi le spalle dando in pasto all’opinione pubblica il tetto agli stipendi (300mila euro) per i manager delle società pubbliche non quotate. Spazio per nuove modifiche non ce ne dovrebbe essere: dopo la fiducia di oggi a palazzo Madama, il testo – che accorpa pure il decreto Dismissioni, quello che rende Cassa depositi e prestiti una sorta di potenza nucleare e regala quasi quattro miliardi a Monte Paschi – dovrebbe passare senza modifiche alla Camera per divenire legge prima delle ferie.

Basta sacrifici. Lo sostiene il ministro.

Legittime le considerazioni di Balduzzi sui tagli alla Sanità: “è stato raggiunto il limite, ora basta con i sacrifici, nei tagli alla sanità non si puo’ andare oltre. Ho detto che non è pensabile sia Roma a decidere quali piccoli ospedali vanno chiusi. E’ necessaria una riorganizzazione della rete ospedaliera, non c’è dubbio. Le Regioni sono invitate a farlo, in particolare quelle che, proprio per la mancata razionalizzazione, sono in piano di rientro (Piemonte, Puglia, Sicilia) e quelle in commissariamento (Lazio, Campania, Abruzzo, Molise, Calabria). Ma non sarebbe coerente con il riparto delle competenze tra Stato e Regioni se i tagli fossero decisi da Roma. Ne andrebbe di mezzo la serietà di una politica sanitaria. Una cosa così non puo’ essere accettata. Lo dirò in consiglio dei ministri. Mi auguro che gli argomenti siano ascoltati”. In merito ai ticket, Balduzzi sottolinea che “la manovra del luglio 2011 prevede dal primo gennaio 2014 nuovi ticket; io li considero non sostenibili. Sto cercando un meccanismo per evitarli”.

Resta da vedere quali saranno le misure per rendere la Sanità efficace, efficiente, equa, etica ed economica. Il “limone” è stato spremuto abbastanza e forse è giunta l’ora di entrare nel merito di santuari fino ad ora considerati intoccabili.

Risparmi veri e presunti

Dalla Repubblica (link): “Ridurre i piccoli ospedali farebbe risparmiare poco più della metà dei 18mila posti letto che il ministero vuole eliminare. Gli altri si recupererebbero con tagli nelle strutture più grandi. L’idea è quella di passare da 4 letti ospedalieri ogni mille abitanti a 3,7, forse 3,6, cioè comunque di più di quanto chiesto dall’Unione europea, che detta un limite di 3,3 per mille. In questo caso le riduzioni sono più “orizzontali” ma non basterà togliere uno o due letti per reparto, un’operazione che alla fine non porta ad un risparmio. È necessario intervenire, ad esempio nei grandi ospedali, accorpando reparti simili e riducendo così gli spazi di degenza ma anche il numero dei primari e dei medici. Solo in questo modo si raggiunge un risparmio. Di quanti soldi? Al ministero stimano che la partita ospedali, tra taglio letti e strutture più piccole, possa fruttare circa 250 milioni di euro, quindi non una cifra particolarmente alta. Il provvedimento però vorrebbe anche portare ad una rete di assistenza più efficiente.

E’ proprio questa la partita importante da giocare. Rendere più efficiente la rete assistenziale. Il territorio, la rete ospedale territorio, i servizi di base devono recuperare le loro competenze. Anche qui vanno ridefiniti i ruoli, tagliati i “primariati” in eccesso e le sovrastrutture burocratizzanti che rallentano l’erogazione delle prestazioni e aumentano la spesa ed il disagio dei cittadini. Non ultimo il masssivo invecchiamento del personale medico. E’ noto da tempo che la classe “anni 50” fornisce un contributo di personale eccessivo sulla percentuale degli occupati. E’ una classe sempre più vecchia, spesso ammalata, sempre stanca e pertanto a rischio di errori. Al tempo stesso portatrice di un patrimonio di competenze ed esperienze che sarebbe sbagliato sprecare. Su questo si può e si deve lavorare.

Il giro del mondo in 80 letti.

Sono cinque gli ospedali salernitani che non raggiungono gli 80 posti letto previsti dalla recente spending review:

  • Presidio ospedaliero Andrea Tortora, Pagani;
  • Presidio ospedaliero Villa Malta, Sarno;
  • Presidio ospedaliero G. da Procida, Salerno;
  • Ospedale di Roccadaspide,  Roccadaspide;
  • Ospedale civile di Agropoli Agropoli.

Fortissimi i dubbi che il provvedimento avrà seguito. D’altronde la regione Campania si trova nella paradossale situazione di avere già meno posti del previsto (3,6 per mille contro i 3,7 previsti). Inoltre l’atavico e collaudato campanilismo, nonchè perversi meccanismi di autoconvenzionamento, faranno si che il doveroso recupero di risorse si tramuterà in un semplice spostamento di voci di bilancio e non, come sarebbe giusto, in un miglioramento della qualità assistenziale tagliando gli sprechi che sono sotto gli occhi di tutti.

Troppi primari

In Italia ci sarebbero tremila primari più del necessario. Con buona pace di quanti hanno avuto santi in paradiso o essi stessi sono stati padrini politici. Il ministero della Sanità ha calcolato che per eliminare gli esuberi e contenere i costi dovranno essere tagliate 3 mila poltrone su circa 19 mila di primario. Si calcola che dovranno esserne previsti uno ogni 17,5 posti letto o nelle aree di almeno 13.500 persone. Quando in eccesso i reparti verranno accorpati. Le regioni più interessate, guarda caso, sono quelle con i conti in rosso Campania, Lazio, Molise, Abruzzo, Puglia, Calabria, Piemonte e Sicilia. L’eccesso raggiunge cifre da capogiro in Campania dove i primari in eccesso sono 795. D’altronde con 2048 strutture complesse di cui il 40% territoriali si raggiungono vertici paradossali e patetici,. Non meraviglierebbe trovare strutture dove i primari sono più dei pazienti o che riguardano attività “di supporto”. Anche le strutture semplici sarebbero troppe e, sempre in Campania, andrebbero ridotte dell’ottanta per cento. Tuttavia le misure consigliate dal Governo appaiono troppo restrittive, mirate più al mero calcolo contabile che non alle prestazioni da effettuare. Se è vero che non possono più essere tollerate situazioni come quelle di alcuni policlinici universitari dove ci sono più professori ed unità operative che non letti è altrettanto vero che la mancata graduazione delle funzioni accentuerebbe ulteriormente il malcontento e la scarsa qualità di vita in cui versano una buona parte dei medici la cui unica motivazione a ben operare resta, allo stato, il Giuramento di Ippocrate. Meglio sarebbe, come consigliato da più parte, tagliare gli Ospedali inutili.

Conferenza dei Rettori: eccellenze a rischio

I tagli al sistema universitario hanno scatenato la protesta dei rettori che nella recente Conferenza dei Rettori (CRUI) hanno denunciato i pericoli di tale manovra.
“Il taglio complessivo subito dal sistema universitario italiano nel triennio 2010-2012 non ha eguali nel contesto internazionale: toccherà il 12% che diviene il 18% se vi si aggiungono gli effetti dell’inflazione”.
Con buona pace dell’alta formazione, che non può essere considerata solo una spesa da tagliare nei momenti di bisogno ma che, piuttosto, è un investimento per il futuro.

Il deficit in Sanità

38.000.000.000. Trentotto miliardi di euro. A tanto ammonta il deficit sanitario accumulato in dieci anni. 646 euro a cittadino che diventano 2460 nel Lazio, 1991 in Molise e 1483 in Campania. Intanto i ricoveri si riducono del 17%, i posti letto dell’11%, il personale resta lo stesso e la spesa farmaceutica territoriale è nei limiti. Aumentano però la spesa per beni e servizi e per la specialistica. E a breve, in conseguenza della manovra finanziaria, mancheranno circa otto miliardi di trasferimenti per i prossimi tre anni.

Le vacche grasse

Se è vero, come è vero, che “ci tagliano la salute” è altrettanto vero che altri, in Italia, se la passano molto bene. Come se il problema della spesa non esistesse.  Al Celio, per esempio, per meno di cento posti letto ci sono diciassette dipartimenti, ventiquattro reparti ed oltre cinquanta servizi. Il tutto assicurato da 1200 unità di personale, medico e non. Con altrettante persone altri ospedali assicurano l’assistenza a 400 pazienti. Inoltre, per assicurare il pieno funzionamento delle strutture e della strumentazione a disposizione c’è la possibilità per “scopi didattico-addestrativi” di utilizzazione al di fuori dell’ospedale, magari in strutture private dove gli ufficiali medici prestano servizio. Gli stessi che, interrogati in inchieste giornalistiche, hanno confidato “stiamo giornate intere a fare niente. Senza contare che, dal punto di vista professionale, sappiamo bene quanto la pratica e l’aggiornamento siano necessari alla nostra professione”. E se provassimo, come già in uso in Francia e in Germania ad aprire gli ospedali ai civili? La sinergia porterebbe a non pochi benefici sopra in quelle prestazioni da sempre patrimonio della sanità militare (ecografia, chirurgia plastica, ortopedia).