Etichettato: omocisteina
Stroke, July 2014
Highlights
In the Issue of Stroke, July 2014 (link)
- Effect of Genetic Variants Associated With Plasma Homocysteine Levels on Stroke Risk -This study found several potential associations with IS and its subtypes: an association of an MUT variant with small-vessel disease, an MTHFR variant with large-vessel disease, and associations of RASIP1 and SLC17A3 variants with overall IS.
- Acute Cerebrovascular Disease Occurring After Hospital Discharge for Labor and Delivery – The incidence of postpartum acute CVD after hospital discharge for labor and delivery is similar to rates reported for all postpartum events in previous publications, suggesting that a substantial proportion of postpartum CVD occurs after discharge.
- Pretreatment Blood–Brain Barrier Damage and Post-Treatment Intracranial Hemorrhage in Patients Receiving Intravenous Tissue-Type Plasminogen Activator -A perfusion-weighted imaging–derived index of blood–brain barrier damage measured before intravenous tissue-type plasminogen activator is given is associated with the severity of ICH after treatment in patients with acute ischemic stroke.
- Memantine Enhances Recovery From Stroke – Our results suggest that memantine improves stroke outcomes in an apparently non-neuroprotective manner involving increased brain-derived neurotrophic factor signaling, reduced reactive astrogliosis, and improved vascularization, associated with improved recovery of sensory and motor cortical function. The clinical availability and tolerability of memantine make it an attractive candidate for clinical translation.
- Guidelines for the Prevention of Stroke in Patients With Stroke and Transient Ischemic Attack – The aim of this updated guideline is to provide comprehensive and timely evidence-based recommendations on the prevention of future stroke among survivors of ischemic stroke or transient ischemic attack. The guideline is addressed to all clinicians who manage secondary prevention for these patients. Evidence-based recommendations are provided for control of risk factors, intervention for vascular obstruction, antithrombotic therapy for cardioembolism, and antiplatelet therapy for noncardioembolic stroke. Recommendations are also provided for the prevention of recurrent stroke in a variety of specific circumstances, including aortic arch atherosclerosis, arterial dissection, patent foramen ovale, hyperhomocysteinemia, hypercoagulable states, antiphospholipid antibody syndrome, sickle cell disease, cerebral venous sinus thrombosis, and pregnancy. Special sections address use of antithrombotic and anticoagulation therapy after an intracranial hemorrhage and implementation of guidelines.
La neuropatia periferica da levodopa
Pubblicato su Movement Disorder un articolo (link) sulla neuropatia da levodopa. Lo studio multicentrico ha esaminato 330 pazienti con malattia di Parkinson e 137 controlli sani con distribuzione per età comparabile. Per quanto riguarda l’esposizione alla levodopa, 144 pazienti avevano un’esposizione a lungo termine (≥ 3 anni – LELD) 103 a breve (<3 anni – SELD) e 83 pazienti non assumevano levodopa (NOLD). Tutti sono stati sottoposti ad esame clinico e neurofisiologico che ha evidenziato la presenza di neuropatia assonale, prevalentemente sensoriale nel 19,40% dei pazienti nel gruppo LELD, del 6,80% nel gruppo SELD, del 4,82% nel gruppo NOLD e 8.76% nel gruppo di controllo. L’analisi logistica multivariata ha indicato che il rischio di neuropatia non è influenzato dalla durata di malattia, dalla gravità o dal sesso ed è aumentato di circa l’8% per ogni anno di età (p=0,001; odds ratio 1,08). Il rischio è 2,38 volte più alto nel gruppo LELD rispetto al gruppo di controllo (p = 0,022; OR, 2,38). Inoltre in un confronto tra pazienti con e senza neuropatia la dose di levodopa era più elevata (P=0.0001), i livelli sierici di vitamina B12 erano inferiori (p = 0,0102) e i livelli di omocisteina erano superiori (p=0,001) nei pazienti con neuropatia. I risultati evidenziano che la durata di esposizione alla levodopa, insieme con l’età, è il principale fattore di rischio per lo sviluppo di neuropatia.
Nei pazienti parkinsonismi che assumono levodopa sarebbe opportuno screenare i livelli di omocisteina e di vitamina B12 ed eseguire un monitoraggio clinico-neurofisiologico per la neuropatia.
Duodopa e neuropatia periferica
Nella malattia di Parkinson in fase avanzata può essere utilizzata l’infusione continua intra-duodenale di un gel intestinale composto da levodopa e carbidopa (Duodopa). In generale la tollerabilità del trattamento è sovrapponibile a quella della terapia dopaminergica orale, tuttavia sono stati riportati casi di neuropatia periferica sintomatica, a volte gravi. I casi sono in genere si manifestano con una polineuropatia sensitivo, ad insorgenze sia subacuta che cronica, spesso associati a carenza di vitamina B12 e/o B6. In rari casi le manifestazioni cliniche sono simili a quelle della sindrome di Guillain-Barré. In assenza di dati raccolti in maniera prospettica sulle possibili associazioni tra Duodopa e neuropatia è prudente esplorare i potenziali meccanismi che possono spiegare una possibile correlazione. La polineuropatia può essere legata all’uso di levodopa ad alte dosi, ad elevati livelli di omocisteina e acido metilmalonico o un ridotto assorbimento di vitamine essenziali per il metabolismo dell’omocisteina. In alcuni casi la neuropatia ha risposto alla supplementazione di vitamina senza necessità di sospendera la levodopa, anche se a volte è necessaria questa decisione. Può essere opportuno monitorare la vitamina B12/B6 prima e dopo che i pazienti iniziano il trattamento e prestare attenzione ai segni di neuropatia ed ulteriori studi devono essere condotti per meglio comprendere questa problematica.
(fonte Parkinsonism and Related Disorders – link)
Elevati livelli di omocisteina non correlano con l’Alzheimer
Al fine di verificare se una moderata elevazione di omocisteina plasmatica totale (tHcy) sia un potenziale fattore di rischio per la malattia di Alzheimer sono stati esaminati 326 pazienti con Alzheimer e 281 con decadimento cognitivo lieve (MCI). Il lavoro (link), pubblicato su Dementia and Geriatric Cognitive Disorders, ha correlato diverse variabili (età, danno renale, cobalamina, folati presenza di malattia vascolare ed omocisteina totale) per un periodo di cinque anni. Gli studiosi ritengono che l’aumento dell’omocisteina plasmatica totale nei pazienti con Alzheimer potrebbe essere attribuito prevalentemente a carenza di cobalamina o di folati o ad insufficienza renale. I pazienti Alzheimer più giovani (sotto i 75 anni) e i pazienti con MCI senza carenza di cobalamina o di folati o insufficienza renale hanno mostrato livelli normali di omocisteina plasmatica totale.
Lo studio afferma che elevati livelli plasmatici di omocisteina non sono rilevanti nella patogenesi dell’Alzheimer ma, piuttosto, sono un riflesso delle modificazioni plasmatiche nella malattia di Alzheimer.
Folati ed Alzheimer
E’ noto il ruolo dei folati nel mantenimento dell’integrità del DNA e, in particolare, nel ciclo di metilazione della metionina e dell’omocisteina. La sostanza è fondamentale durante la vita embrionaria per la formazione del tubo neurale e in età avanzata per la prevenzione del declino cognitivo e della demenza di Alzheimer. Non è altrettanto noto se la supplementazione di acido folico per la prevenzione o il ritardo di demenza sia una strategia utile. In letteratura in sei, su sette, studi randomizzati e controllati con periodi di trattamento con vitamina B compresi tra 2 e 5,4 anni sono stati trovati benefici cognitivi nei gruppi trattatai soprattutto per i soggetti con omocisteina alta o bassi livelli di folati. Un lavoro pubblicato sul Journal of Neural Transmission (link) cerca di dimostrare la connessione tra carenza di folati e Alzheimer e di trovare spiegazioni per la controversia in letteratura come la brevità del follow-up, l’eterogeneità dei soggetti, etc.
Biomarkers e Alzheimer (3/3)
In conclusione a quanto esposto nei giorni scorsi l’articolista afferma che se la patologia è presente prima che la persona manifesti il declino cognitivo il passo successivo più logico dovrebbe essere la scansione di routine degli anziani per identificare i segni rivelatori della malattia. Ma questo è più facile a dirsi che a farsi. La risonanza magnetica è costosa e la PET ancora di più oltre a non essere facilmente disponibile. La puntura lombare può essere di routine ma è molto più invasiva del prelievo di sangue e comporta un rischio, seppure minimo, di infezione e danni al midollo spinale. Oltre a non essere etico.
Un biomarcatore ideale dovrebbe essere rintracciabile in un semplice esame di sangue e regolarmente vengono proposti nuovi marcatori che soddisfano questo criterio. Negli anni scorsi sono stati proposti la clusterina, la proteina carbonile, gli inibitori dell’enzima di conversione, i prodotti della perossidazione lipidica e pattern di espressione genica. Il marcatore ideale potrebbe essere imminente o potrebbe anche non esistere. E’ verosimile che potremmo essere costretti a utilizzare una combinazione di biomarcatori. Non sono stati ancora pubblicati i dati di due nuovi potenziali biomarcatori, una molecola immunitaria e una proteina tumore-soppressore, che si trovano nei monociti.
In un lavoro del 2007 l’utilizzo combinato di 18 proteine plasmatiche misurata insieme ha evidenziato come si possano differenziare le persone con Alzheimer dai controlli sani. Tuttavia nemmeno questo approccio ha portato a risultati riproducibili. Questa mancanza di riproducibilità ha suonato la campana a morto per molti promettenti studi di biomarker.
In un altro studio invece di usare una serie di anticorpi per cercare le proteine nel sangue è stata utilizzata una matrice di 15.000 proteine sintetiche per cercare gli anticorpi nel sangue che, in assenza di malattia, non dovrebbero esserci tutti ma in presenza di malattia andranno a essere amplificati milioni di volte. Tale approccio presuppone che la patologia della malattia di Alzheimer includa una risposta immunitaria, un’idea che non è generalmente condivisa tra i ricercatori. Ma tale scommessa sembra aver dato i suoi frutti. Sono stati trovati due anticorpi che sono fortemente espressi in 14 delle 16 persone con malattia di Alzheimer e solo in 2 su 16 soggetti di controllo. Poiché i controlli sono stati appaiati per età, i due con elevati livelli di anticorpi potrebbero avere la malattia in fase preclinica, più o meno allo stesso modo in cui le placche amiloidi sono evidenti ben prima dei sintomi cognitivi. Lo studio è stato esteso a circa 200 persone.
(continua)
Biomarkers e Alzheimer (2/3)
Proseguendo la descrizione iniziata ieri sui biomarkers di Alzheimer l’articolo su Nature riferisce che le tecnologie di imaging stanno aiutando a identificare i cambiamenti a livello cerebrale che correlano con il declino cognitivo. Le scansioni RMN di persone con Alzheimer rivelano, con l’avanzare della malattia, un restringimento del lobo temporale e dell’ippocampo, la regione del cervello usata per immagazzinare i ricordi e l’orientamento spaziale, nonchè allargamento dei ventricoli, le cavità del cervello che contengono il liquido cerebrospinale. Gli studi FDG-PET dimostrano che il declino cognitivo è più strettamente associata a ridotta attività metabolica cerebrale. I ricercatori dell’Università di Pittsburgh, in Pennsylvania, hanno sviluppato una nuova forma di PET. Utilizzando un composto radiomarcato chiamato Pittsburgh compound B (PiB), hanno generato scansioni che evidenziano le placche amiloidi nel cervello umano vivente. In combinazione con le misure liquorali, la metodica ha confermato che all’aumento di livelli aggregati di β-amiloide nel cervello corrisponde la diminuizione di β-amiloide solubile nel liquido cerebrospinale. Ciò consente di attribuire alla PiB-PET un ruolo definito come biomarcatore e convalida ulteriormente il significato della misurazione della β-amiloide liquorale come marker affidabile di patologia cerebrale.
L’ADNI ha anche chiaramente dimostrato che la patologia di Alzheimer è presente nel cervello delle persone molto prima che ammalino di demenza. Lo studio ha infatti indicato che le persone apparentemente sane di età superiore a 70 anni che hanno β-amiloide nel cervello potrebbero avere un rischio maggiore di sviluppare demenza. Infatti, le nuove linee guida NIH per la diagnosi di Alzheimer hanno ampliato la definizione della malattia per includere l’MCI e una fase presintomatica. La presenza di β-amiloide anche in questa fase iniziale potrebbe spiegare che le sperimentazioni con vaccini anti-β-amiloide non hanno avuto successo in quanto sono state effettuate su pazienti con malattia troppo avanzata.
(continua)
Biomarkers e Alzheimer
Continuando l’esposizione del numero monografico di Nature sull’Alzheimer oggi è la volta dell’articolo di Ruth Williams (link) dal titolo Biomarkers: segnali di pericolo.
Allo stato la diagnosi definitiva della malattia di Alzheimer è possibile solo con l’analisi post-mortem del cervello. E’ quindi evidente come sia importante valutare la persona in vita allo scopo di trovare un marker affidabile che possa dirci chi ammalerà di Alzheimer e in quale fase della malattia si trova. Un indicatore di questo tipo è utile in clinica e nella sperimentazione di nuovi farmaci. Continua a leggere