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Lancet Neurology – October 2014
Of interest in the last number of Lancet Neurolgy
Alzheimer’s disease pathology: an estimation of frequencies of amyloidosis and neurodegeneration in individuals aged 50-89 years with normal cognition, by age, sex, and APOE ε4 status.
Ageing: sleep disturbances in older adults might predict or contribute to cognitive decline and dementia.
The role of iron in brain ageing and neurodegenerative disorders In the CNS, iron in several proteins is involved in many important processes such as oxygen transportation, oxidative phosphorylation, myelin production, and the synthesis and metabolism of neurotransmitters. Abnormal iron homoeostasis can induce cellular damage through hydroxyl radical production, which can cause the oxidation and modification of lipids, proteins, carbohydrates, and DNA. During ageing, different iron complexes accumulate in brain regions associated with motor and cognitive impairment. In various neurodegenerative diseases, such as Alzheimer’s disease and Parkinson’s disease, changes in iron homoeostasis result in altered cellular iron distribution and accumulation. MRI can often identify these changes, thus providing a potential diagnostic biomarker of neurodegenerative diseases. An important avenue to reduce iron accumulation is the use of iron chelators that are able to cross the blood—brain barrier, penetrate cells, and reduce excessive iron accumulation, thereby affording neuroprotection.
The neuro-ophthalmology of head trauma Traumatic brain injury (TBI) is a major cause of morbidity and mortality. Concussion, a form of mild TBI, might be associated with long-term neurological symptoms. The effects of TBI and concussion are not restricted to cognition and balance. TBI can also affect multiple aspects of vision; mild TBI frequently leads to disruptions in visual functioning, while moderate or severe TBI often causes structural lesions. In patients with mild TBI, there might be abnormalities in saccades, pursuit, convergence, accommodation, and vestibulo-ocular reflex. Moderate and severe TBI might additionally lead to ocular motor palsies, optic neuropathies, and orbital pathologies. Vision-based testing is vital in the management of all forms of TBI and provides a sensitive approach for sideline or post-injury concussion screening. One sideline test, the King-Devick test, uses rapid number naming and has been tested in multiple athlete cohorts.
La fatica nel Parkinson
Pubblicato on line su Neurology (link) un articolo osservazionale sulla prevalenza e la gravità della fatica nei pazienti con malattia di Parkinson (MP). Lo studio, condotto in Italia, ha utilizzato la PFS-16 (Parkinson Fatigue Scale), lo stress da fatica (PFS-16 ≥ 3,3), e la valutazione dei suoi correlati clinici. In totale sono stati arruolati 402 pazienti, di cui 394 pazienti hanno completato il questionario PFS-16 con una PFS-16 media di 2,87 ± 0,99. Di questi, 136 pazienti (33,8%) hanno riportato stress da fatica (PFS-16 medio di punteggio ≥ 3.3). I pazienti con stress da fatica erano più anziani (p= 0.044) e avevano una durata di malattia più lunga (p <0,0001) rispetto a quelli senza stress da fatica. La presenza di stanchezza dolorosa è stata associata con un maggiore punteggio alla Unified Parkinson Disease Rating (UPDRS), con peggiori valori alla scala della qualità della vita alla PDQ-39 (Parkinson Disease Questionnaire a 39 item), peggiori comportamenti sociali e psicologici, maggiore severità di sintomi depressivi e una maggiore prevalenza di disturbi del sonno (tutti p <0.001). L’analisi di regressione logistica ha rivelato che alti punteggi totali all’UPDRS, il sesso femminile, la depressione, i disturbi del sonno, nonché i punteggi più elevati di UPDRS e di PDQ-39 aumentano la probabilità di stress da fatica nei pazienti con malattia di Parkinson. In conclusione circa un terzo dei pazienti con malattia di Parkinson accusa stress da fatica, significativamente associato con la depressione e disturbi del sonno. Il fatto che la presenza di fatica peggiora la qualità della vita del paziente sostiene la necessità di diagnosticare e trattare questo sintomo debilitante.
Logistic regression analyses revealed that higher total UPDRS scores, female sex, depression, sleep disorders, as well as higher UPDRS activities of daily living scores and PDQ-39 mobility scores increase the likelihood of distressing fatigue in patients with PD. Approximately one-third of patients with PD have distressing fatigue, which is significantly associated with depression and sleep disorders. The fact that the presence of fatigue worsens patient quality of life supports the need to better diagnose and treat this debilitating symptom.
Inibitori delle colinesterasi, memantina e deterioramento cognitivo
Recentemente sono stati completati diversi grandi studi controllati e randomizzati sui trattamenti del deficit cognitivo o della demenza dovuta a malattia di Parkinson (CIND-PD o PDD) e della demenza con corpi di Lewy (DLB) . In un articolo pubblicato sul Journal od Neurology, Neurosurgery and Psychiatry (link) sono stati esaminati tutti gli studi, anche quelli più recenti, aventi per oggetto il trattamento di CIND-PD, PDD e DLB. La ricerca è stata effettuata su varie fonti (Cochrane Dementia and Cognitive Improvement Group Specialised Register, Pubmed, Embase,) e sono state selezionati come outcome primari di efficacia l’impressione globale e la funzione cognitiva, mentre per la sicurezza sono stati calcolati gli abbandoni e gli eventi avversi. I dati sono stati quindi sottoposti a meta-analisi e a processo di analisi sequenziale (TSA). Dieci studi sono risultati essere eleggibili ed inclusi nello studio. Gli inibitori delle colinesterasi e la memantina hanno prodotto una piccola efficacia globale sull’impressione globale di cambiamento da parte dei medici (CGIC), con una differenza media pesata di -0.40 e -0,65. Tuttavia, gli inibitori delle colinesterasi ma non la memantina hanno significativamente migliorato la cognizione al Mini-Mental State Examination (MMSE), da 1.04 a 2,57 punti. Inoltre, entrambi avevano buoni risultati di sicurezza, sebbene la rivastigmina ha mostrato un aumento del rischio sugli eventi avversi rispetto al placebo (risk ratio, RR 1.19,), con eventi generalmente lievi o moderati, e con rischio scomparso per gravi eventi avversi. Gli autori concludono che gli inibitori delle colinesterasi e la memantina migliorano leggermente impressione globale; tuttavia, solo inibitori della colinesterasi migliorare la funzione cognitiva. Inoltre, tutti i farmaci hanno buoni risultati di sicurezza. Ma la limitatezza dei lavori sull’argomento ha precluso la generalizzazione di questi risultati.
Cholinesterase inhibitors and memantine slightly improve global impression; however, only cholinesterase inhibitors enhance cognitive function. Besides, all the drugs have good safety outcomes. But the limited trials precluded the generalisation of these outcomes.
La SPECT nella diagnosi differenziale tra Alzheimer e Parkinson Demenza
E’ noto che i modelli di disfunzione cognitiva nella fase iniziale di malattia di Parkinson associata a demenza (PDD) sono simili a quelli della fase iniziale della malattia di Alzheimer (AD) per cui è molto difficile distinguere con precisione tra questi due tipi di demenza nelle loro prime fasi utilizzando solo i test neuropsicologici. Uno studio pubblicato su Dementia and Geriatric Cognitive Disorder (link) ha analizzato, con l’utilizzo della SPECT (tomografia computerizzata ad emissione di singolo fotone), le eventuali differenze nei modelli di perfusione cerebrale di pazienti nelle primissime fasi di Malattia di Alzheimer e Parkinson Demenza. A tal fine sono stati reclutati consecutivamente 31 pazienti con PDD lieve, 32 pazienti con probabile AD lieve e 33 soggetti sani di pari età. Tutti i probandi sono stati sottoposti a SPECT con 99mTc-esamethilpropileneamina SPECT ed esaminati con test neuropsicologici generali. I ricercatori hanno evidenziato che sia i pazienti con PDD lieve che i pazienti con AD mostravano ipoperfusione delle regioni frontale, parietale e temporale rispetto ai soggetti sani. Ancora più importante, solo nei pazienti con Parkinson Demenza lieve è stata osservata una ipoperfusione nelle regioni occipitali e in quelle cerebellari è stata osservata solo in PDD lieve. Tale evidenza (significativa riduzione della perfusione cerebrale in regione occipitale e cerebellare nei pazienti con PDD lieve) è probabilmente utile per differenziare già nelle primissime fasi il PDD e l’AD. L’utilizzo della metodica nella routine diagnostica in fase precoce può aiutare ad instaurare una terapia precoce e a predisporre misure di supporto a misura del paziente colpito anche in previsione del pattern evolutivo.
The observation of a significant decrease in cerebral perfusion in occipital and cerebellar regions in patients with mild PDD is likely useful to differentiate between PDD and AD at the earliest stages. Both mild PDD and AD patients showed distinct hypoperfusion in frontal, parietal and temporal regions, compared with healthy subjects
Terapia del Parkinson
Una recente rassegna delle opzioni terapeutiche disponibili per la malattia di Parkinson, pubblicata su Jama (link) ha confermato che le terapie disponibili, di tipo sintomatico, pur non modificando il processo neuro degenerativo sottostante sono in grado di migliorare la qualità della vita dei pazienti. La malattia di Parkinson è, per incidenza e prevalenza, la seconda malattia neurodegenerativa più comune al mondo. Nell’articolo gli autori hanno fornito una revisione basata sull’evidenza della gestione farmacologica iniziale dei classici sintomi motori della malattia di Parkinson; sono state quindi descritte la gestione delle complicanze motorie farmaco correlate (quali le fluttuazioni motorie e le discinesie) ed altri effetti avversi del farmaco (nausea, psicosi e disturbi del controllo degli impulsi e del comportamento); infine hanno discusso la gestione dei sintomi non motori della malattia di Parkinson, tra cui i REM behavior disorder (RBD, disturbi del comportamento in sonno REM), i deficit cognitivi, la depressione, l’ipotensione ortostatica e la scialorrea. Allo scopo è stata condotta una ricerca su PubMed relativo al periodo gennaio 1985 – febbraio 2014 ed è stato consultato l’intero database della Cochrane Library. La classificazione degli studi per qualità (classi I-IV) è stata valutata utilizzando le linee guida per i livelli di evidenza della American Academy of Neurology ed i dati di maggiore qualità per ogni argomento. Il risultato più significativo è stata la conferma che la levodopa è il farmaco disponibile più efficace per il trattamento dei sintomi motori della malattia di Parkinson, in alcuni casi (ad esempio, sintomi lievi, tremore come l’unico o il più importante sintomo, di età. Sebbene la levodopa resti il farmaco più efficace a disposizione per il trattamento dei sintomi motori della malattia di Parkinson, in alcuni casi (ad esempio in presenza di sintomi lievi, con tremore come unico o principale sintomo, in persone di età anche se in alcuni casi (ad esempio in presenza di sintomi lievi, con tremore come unico o principale sintomo, in persone di età <60 anni) si può iniziare la terapia con altri farmaci quali gli inibitori della monoamino-ossidasi di tipo B (IMAO-B), l’amantadina, gli anticolinergici, i β-bloccanti o gli agonisti della dopamina per evitare le complicanze motorie legate alla levodopa. Le fluttuazioni motorie possono essere gestite modificando il dosaggio della levodopa o con l’aggiunta di diversi altri farmaci, come gli I-MAO, gli inibitori della catecol-O-metiltransferasi o gli agonisti della dopamina. I disturbi del controllo degli impulsi sono in genere gestiti con la ridurre o la sospensione dei farmaci dopaminergici, in particolare gli agonisti della dopamina. Infine la gestione basata sull’evidenza di alcuni sintomi non motori è limitata dalla scarsità di studi positivi di alta qualità.
Strong evidence supports using levodopa and dopamine agonists for motor symptoms at all stages of Parkinson disease. Dopamine agonists and drugs that block dopamine metabolism are effective for motor fluctuations and clozapine is effective for hallucinations. Cholinesterase inhibitors may improve symptoms of dementia and antidepressants and pramipexole may improve depression. Evidence supporting other therapies for motor and nonmotor features is less well established.
Tiroide e Parkinson: correlazione con lo stato cognitivo
Un articolo pubblicato su Dementia and Geriatric Cognitive Disorder (link) evidenzia come un’alterazione dei livelli di ormone tiroideo (TH) può essere legata alla patogenesi sia di decadimento cognitivo lieve (MCI) che di demenza. I deficit cognitivi sono frequenti nei pazienti colpiti da malattia di Parkinson e nello studio si è inteso valutare se le variazioni all’interno dei normali intervalli di funzione tiroidea fossero collegati alla funzione cognitiva nella malattia di Parkinson precoce senza demenza. Allo scopo sono stati studiati ottantaquattro pazienti eutiroidei con Parkinson in fase iniziale, sottoponendoli a valutazione del loro stato tiroideo, compresi il dosaggio di TSH, triiodotironina totale (tT3 ) e tiroxina libera (fT 4) e con una completa valutazione neuropsicologica. L’analisi dei dati ha evidenziato che i 46 pazienti del gruppo PD-MCI non differivano nei livelli sierici di TH rispetto ai 38 pazienti del gruppo PD-cognizione normale. I livelli di fT4 sono risultati inversamente associati con il punteggio al Mini-Mental State Examination (MMSE) e alle prove neuropsicologiche sull’attenzione e visuo-spaziale nonchè alle funzioni esecutive. I livelli di TSH e tT 3 livelli non sono risultati collegati alla performance cognitive. Dopo il controllo per le variabili demografiche e cliniche, l’analisi di regressione multipla ha indicato associazioni statisticamente significative tra livelli di fT4 e punteggio alla MMSE e i test neuropsicologici sulla funzione esecutiva. In conclusione lo studio supporta l’ipotesi di una relazione tra lo stato tiroideo e la funzione cognitiva nei pazienti eutiroidei con Parkinson iniziale ed in particolare con le concentrazioni più elevate di fT 4, associate ad una scarsa performance delle funzioni esecutive.
Alterations in thyroid hormone (TH) levels may be related to the pathogenesis of mild cognitive impairment (MCI) and dementia. A recent study recognized a relationship between the thyroid status and cognitive function in euthyroid early PD patients, with higher concentrations of fT4 being associated with a poor performance of executive function
Quando la demenza viene scoperta in ospedale
La diagnosi formale di demenza di solito viene posta da professionisti, con il supporto di gruppi di sostegno ed associazione di pazienti, tramite i quali viene assicurato l’accesso a trattamenti basati sull’evidenza, un sostegno individuale e ai caregevir, la possibilità di formulare direttive anticipate su decisioni finanziarie e di welfare anche quando vengono perse le proprie capacità e la partecipazione alla ricerca clinica. Di solito la diagnosi viene formulata quando un paziente o, più spesso un loro accompagnatore, rende partecipe il medico di medicina generale delle preoccupazioni circa la propria memoria per poi essere sottoposto ad un processo di valutazione più formale da parte di uno specialista. Eppure questo percorso diagnostico a livello di popolazione è manifestamente inefficace, perché circa la metà delle demenza rimane inosservata. Questo enorme divario diagnostica ha indotto un crescente dibattito sui vantaggi e gli svantaggi dello screening per la demenza. In un articolo pubblicato su Age and Ageing (link) viene discussa la decisione presa nel Regno Unito, per la quale l’approccio generale allo screening è stata di non attuare programmi di test di popolazione finché non ci sono prove convincenti sull’efficacia, sui costi-benefici, sulle implicazioni di formazione sociale e dei servizi sanitari e del sistema e la disponibilità della società, compresi i metodi e le sperimentazioni terapeutiche. Nel caso delle demenze questi criteri non sono ancora stati ancora soddisfatti e lo screening non è attualmente raccomandato nelle cure primarie. Tuttavia, non vi è stato un dibattito approfondito sui vantaggi e gli svantaggi dello screening della demenza negli ospedali generali. Questo è importante perché ulteriori considerazioni critiche si applicano in questo ambiente. La demenza è molto più frequente nei pazienti ricoverati anziani: circa il 40% dei pazienti ricoverati è demente e solo la metà circa di questi è già stato diagnosticato. Gli anziani ricoverati in ospedale pertanto sono una potenziale popolazione target per lo screening per la demenza e la loro condizione di maggiore fragilità rispetto alla popolazione generale implica una maggiore attenzione alle problematiche correlate.
Degenerazione corticobasale: nuovi criteri diagnostici
Pubblicata sul Journal of Neurology, Neurosurgery and Psichiatry (link) una revisione anatomo patologica dei criteri diagnostici per la degenerazione cortico basale (DCB), malattia molto impegnativa con manifestazioni di deficit neurologici molto complesse e limitata accuratezza diagnostica, anche nelle cliniche specializzate. Per i pazienti le prospettive sono spesso sconfortanti, con grave disabilità e morte e poche opzioni di trattamento. L’importanza della DCB non risiede solo nella sua età di esordio relativamente giovane, nell’alta morbilità e nella prognosi infausta: la patologia ha molto in comune con le altre taupatie primarie, tra cui la paralisi sopranucleare progressiva (PSP) e la degenerazione frontotemporale associata a patologia tau (FTLD-tau ). Questo aumenta il potenziale impatto di nuove terapie, ma lo sviluppo di nuovi trattamenti modificanti la malattia richiede una diagnosi accurata. Una limitazione importante è la somiglianza dei fenotipi clinici tra DCB e altre patologie che le somigliano come il morbo di Alzheimer. La confusione in materia viene ancor di più accentuata dalla terminologia spesso confusiva e dalla mancanza di criteri clinici diagnostici condivisi. Un contributo chiarificante sembra provenire dai criteri di Armostrong che al riscontro anatomo patologico su diciannove pazienti CBD ha mostrato nel 47% dei casi una sua validità al momento del primo esame, con conferma alla valutazione nel 68% dei casi (9 e 13 pazienti rispettivamente) Purtroppo su 14 persone con assente riscontro anatomo patologico tutti rispondevano ai criteri diagnostici per cui la specificità dei suddetti criteri è assente del tutto. Un ulteriore contributo alla diagnosi potrebbe provenire dalla positività di biomarcatori ancora tutti da individuare. In conclusione i criteri diagnostici di Armstrong non sono sufficienti per stabilire se una persona è affetta o meno da DCB. I limiti dello studio consistono nella limitata dimensione del campione esaminato e nell’aver condotto un’analisi retrospettiva, limitata dalla scarsa disponibilitò di dati anamnestici e dal fatto che è solo dal 2005 che si stanno raccogliendo i dati clinici in maniera sistematica e coordinata. La straordinaria somiglianza fra Degenerazione Cortico Basale e forme DCB-like suggerisce che l’analisi delle sole caratteristiche cliniche non sono sufficienti per una diagnosi accurata. Qualche aiuto potrebbe venire dalla tomografia ad emissione di positroni con fluorodeossiglucosio o con PiB o da biomarcatori liquorali o dalla negatività dei biomarker per Alzheimer. La principale conseguenza della mancanza di criteri diagnostici definiti ha ripercussioni negative sullo sviluppo e l’applicazione di terapie efficaci.
Sclerosi laterale amiotrofica: recenti acquisizioni
Sclerosi laterale amiotrofica e neurofilamenti: nuove prospettive da uno studio sulle cellule staminali
La sclerosi laterale amiotrofica è una devastante malattia neurodegenerativa che colpisce i neuroni di moto portando lentamente e progressivamente a paralisi e morte del paziente. In Italia gli ammalati sono quasi quattromila, con circa mille nuovi casi all’anno. Una promettente scoperta circa la sua origine e la possibile terapia viene da un lavoro pubblicato di recente sulla rivista Cell Stem Cell (link). I ricercatori impegnati nello studio affermano che sono partiti da una mutazione genetica individuata in alcuni pazienti (SOD1) per trasferire il gene in animali di laboratorio per testare dei farmaci. All’iniziale fallimento delle osservazioni sulle cavie hanno pensato di ricorrere ad esperimenti su motoneuroni coltivati in vitro ed hanno potuto riscontrare un errore nelle proteine del nucleo come possibile origine della difettosa regolazione dei motoneuroni nella sclerosi laterale amiotrofica. Continua a leggere
Cerotto elettronico: prime applicazioni nella malattia di Parkinson
Con discreta regolarità nel campo della malattia di Parkinson, come d’altronde in generale nelle patologie croniche invalidanti, si assiste all’annuncio di notizie sensazionali, rivoluzionarie e, talora, in grado di alimentare aspettative miracolistiche il più delle volte poco realistiche. In questi giorni il web, e di conseguenza le richieste dei pazienti e dei loro familiari, riguardano il cerotto elettronico. All’origine un articolo scientifico dal titolo “Multifunctional wearable devices for diagnosis and therapy of movement disorders” pubblicato su Nature Nanotechnology (link) e prontamente rilanciato da varie agenzie di stampa. Il modello, un prototipo in fase ancora sperimentale, non è altro che un dispositivo multifunzione che si applica sulla pelle come un cerotto e che in teoria potrebbe permettere il rilascio in maniera controllata con un feedback continuo sui sintomi in malattie quali il Parkinson, l’epilessia ed altre. L’idea di base è eccellente e se si considera come le attuali terapie siano poco “intelligenti” e che anche quelle avanzate, duodopa e DBS, non permettono un feedback immediato si comprende come sarebbe utile migliorare ulteriormente le terapie esistenti. Il cerotto elettronico è stato realizzato sfruttando le nanotecnologie, utilizzando nanomateriali elastici della dimensione di milionesimi di millimetro, nanoparticelle d’oro ed “elettronica elastica” su un substrato polimerico. All’interno del dispositivo ci sono sensori fisiologici in grado di rilevare i movimenti muscolari, una memoria non volatile destinata al deposito delle informazioni raccolte e un meccanismo di rilascio del farmaco. Resta comunque da risolvere il problema dell’alimentazione del cerotto elettronico ai fini sia del meccanismo di rilascio che della trasmissione dei dati. La tecnologia attuale non è abbastanza performante e le componenti non sembrano potersi adattare alle caratteristiche della pelle e, a quanto dichiarato dagli stessi ricercatori autori dell’articolo, il sistema è abbastanza complicato. Pur trattandosi della nuovo frontiera dei trattamenti personalizzati non ci troviamo di fronte ad una nuova terapia ma ad una ingegnerizzazione delle modalità di somministrazione di quelle esistenti. Quale sia poi il farmaco che andrà ad essere somministrato resta ancora tutto da verificare.